Intervista a Maria Gabriella Giovannelli sul romanzo Il campo dei colchici
(di Sandro Montalto)
Gentile Maria Gabriella Giovannelli, eccoci a parlare un poco del suo romanzo Il campo dei colchici (Edizioni Joker, Novi Ligure 2009). Come prima cosa, ci può spiegare la scelta di un titolo così particolare, con l’adozione del termine insolito “colchici”? Nella sua prefazione Pire Luigi Amietta suggerisce che lei abbia voluto richiamare l’ambiguità di un bulbo dal quale si può spremere sia uno zucchero sia un potente veleno.
Il titolo di un romanzo è sempre molto importante, sia perché deve stimolare il lettore, che si trova di fronte ad un’ampia offerta di testi, a soffermarsi su quel libro e a leggerne la quarta di copertina, se non altro per curiosità; sia perché in qualche modo deve introdurci alle vicende narrate. In Il campo dei colchici, la cui storia è ambientata sulle Dolomiti, i personaggi chiave hanno come una doppia personalità, un’ambivalenza. Tendono a svelare la parte migliore di sé, mentre esiste in loro un altro aspetto della personalità, un lato oscuro, che spesso rimane nascosto fino al momento nel quale si rivela in maniera drammatica.
Il colchico è un bellissimo fiore che cresce sui prati delle Dolomiti, creandovi vivaci macchie di colore che vanno dal rosa tenue al lilla. Se da un lato questo fiore è molto bello da vedersi, dall’altro ha il bulbo (la parte nascosta di sé) che può essere mortalmente velenosa. Ecco quindi l’aspetto allegorico del titolo.
Il tema del libro, la violenza privata (una violenza che trascina con sé altre persone, come in un vortice), il senso di colpa e, come si dice oggi, lo “stalking”, non è ovviamente di quelli che si scelgono per caso. Quali sono le ragioni di tale scelta? Inoltre, vorrei sapere quale è il suo atteggiamento di fronte ai temi sociali in generale nell’opera letteraria e teatrale.
La sua è una domanda che prevede una molteplicità di risposte, che però hanno una base comune: l’attenzione al sociale. La mia formazione ha seguito due percorsi preferenziali, quello teatrale che mi ha visto diplomarmi attrice presso l’Accademia dei Filodrammatici di Milano e quello di giornalista e scrittrice. Questi due aspetti della mia formazione spesso sono andati avanti parallelamente e si sono reciprocamente influenzati. Io sono convinta che uno scrittore di testi drammaturgici come di romanzi debba occuparsi anche del sociale e portare gli individui a riflettere su tematiche, forse molto lontane dal loro modo di vivere, ma che esistono e coinvolgono un numero elevato di persone. Seduta su di una poltrona di un teatro a guardare una piéce, o nella tranquillità della propria casa con un libro in mano, la gente deve essere stimolata, in modo alternativo a quello proposto dai media, a riflettere su ciò che accade magari al vicino di casa. Una delle tematiche che in primis come donna, ma fondamentalmente come essere umano, mi hanno da sempre interessato ed emotivamente coinvolto, è quella della violenza sulle donne in senso lato, presente nel mondo. Ho voluto però dar voce ad un tipo di violenza che non lascia segni visibili sul corpo, ma che ferisce altrettanto nel profondo, la cosiddetta “violenza psicologica” i cui effetti a volte sono devastanti. Lo stimolo maggiore a trattare questo argomento mi è venuto dal fatto che è un tipo di violenza estremamente difficile da dimostrare. Bisogna portare le persone “dentro al problema”, utilizzando tutti i mezzi possibili, compresa la letteratura.
Mi hanno colpito non solo il tema principale ma certe osservazioni quasi en passant come quella, all’inizio del romanzo, circa l’assenza di solide basi famigliari come causa in qualche modo della disgregazione sociale, o come quelle circa la necessità di recuperare un ritmo più lento che ci permetta di ascoltare ed osservare.
La mancanza di solide basi familiari che caratterizza molta gioventù di oggi; il fatto che l’individuo deve cercare di recuperare un ritmo di vita meno frenetico e porsi degli obiettivi, ma anche dei limiti, per poter sopravvivere: elementi che lei ha trovato tra le righe del mio libro, sono precise constatazioni sulla realtà di oggi. Certo ogni individuo deve cercare di dare un senso alla propria vita e può farlo solo se si ferma per un attimo, se ascolta se stesso e si accorge del mondo che lo circonda.
Mi sembra necessario anche chiederle le ragioni dell’ambientazione: leggendo la quarta di copertina colpisce, infatti, l’apparente contrasto tra la vicenda tinta di violenza e sopraffazione ed il paesaggio delle Dolomiti che si penserebbe custode di una particolare serenità.
Il libro permette anche di scoprire un pezzo d’Italia di rara bellezza, un territorio divenuto di recente patrimonio dell’umanità. Le Dolomiti diventano “l’elemento scenografico” all’interno del quale si svolge la vicenda del romanzo. È una terra che conosco bene poiché mio padre, grande amante della montagna, me l’ha fatta scoprire ed amare fin da quando ero adolescente. Tale ambientazione mi ha permesso di inserire all’interno del libro “momenti lirici” che hanno una doppia funzione: quella di far meditare e in certo modo rasserenare l’animo del protagonista maschile Paolo e quella di alleggerire la tensione della trama condotta sul filo del thrilling. Aver ambientato una storia che ha risvolti drammatici in un contesto di apparente tranquillità ha inoltre lo scopo di sottolineare che dietro una facciata di apparente serenità spesso accadono fatti inimmaginabili e la cronaca nera continuamente ce ne dà conferma.
La sua attività più nota è quella di operatrice nel mondo del teatro: docente, attrice, drammaturga, regista. Viene naturale chiedersi se questo romanzo sia frutto di alcune esperienze maturate in questo campo oppure è una esperienza in qualche modo a lato, seppur ovviamente connessa al resto. Non c’è dubbio infatti che una persona con le sue esperienze abbia un modo preciso di trattare i personaggi e la storia, però non si può dimenticare che teatro e prosa sono due modalità espressive radicalmente diverse. Ho notato, ad esempio, che le battute dei dialoghi presenti nel romanzo non hanno il ritmo del parlato o del teatro contemporaneo, bensì un andamento più lento e rilassato, più piano, direi quasi più consono alla narrativa e al teatro della prima metà del Novecento. Esistono però anche alcune espressioni curiose, come (p. 52) «nuove quinte di montagne»; altrove (p. 71) tra i pochi libri osservati nella libreria di uno dei protagonisti viene citato un Pirandello. Altrove ancora, (p. 77) maliziose citazioni larvate: «tra due file ininterrotte di alberi», ovviamente da Manzoni (un riferimenti forse non solo letterario ma anche schiettamente milanese, o almeno lombardo?).
Come le dicevo, la mia attività legata al teatro, negli anni, è andata pari passo con quella legata alla scrittura drammaturgica e letteraria. Sono evidentemente differenti modi espressivi. In un caso si deve tener presente che il testo deve poter vivere su un palcoscenico e relazionarsi con l’utente finale che è lo spettatore. Questo non bisogna mai dimenticarlo. Nella scrittura drammaturgica non possiamo quindi narrare una storia, descriverla; dobbiamo invece, attraverso il dialogo o il monologo, far vivere e mettere in relazione reciproca i vari personaggi in tutta la loro globalità (azioni, pensieri, gesti ecc). Il romanzo permette invece di raccontare una storia, di inserire all’interno di una trama momenti descrittivi legati al paesaggio, all’ambiente ecc. È pur vero tuttavia che anche in un romanzo, perché un personaggio sia credibile, bisogna saperlo “far vivere” nella mente del lettore, in modo che il lettore diventi quasi “partecipe della storia” e si lasci condurre fino alla fine del romanzo. Quando inizio a scrivere un racconto o un romanzo quindi non solo cerco di strutturarne la trama in modo che coinvolga il lettore e lo stimoli a proseguire nella lettura, ma cerco di immaginare e di vedere con la fantasia ogni “singola scena”, di rappresentarmela davanti come se dovessi dirigere una regia. In tal modo vedo i personaggi muoversi, interagire e riesco a valutarne meglio la credibilità e la spontaneità. La preparazione teatrale, ricevuta in Accademia, mi ha educato a conoscere e scoprire a poco a poco il personaggio del quale mi sto occupando, cercando di conoscerlo nel suo profondo. L’osservazione dei “tipi umani” nella realtà della vita aiuta a riproporre poi quel tal personaggio sulla realtà scenica o narrativa. Ecco quindi che le due formazioni ricevute si sono sempre integrate a vicenda, rispettando le differenze proprie di ogni campo della creatività.
La sua osservazione inerente alle citazioni, ad alcune “espressioni curiose” ecc apre un discorso più ampio, inerente alla formazione di uno scrittore. Io credo che essa avvenga attraverso un procedimento direi di “metabolizzazione interiore”, dei vari testi classici e non che il soggetto legge; una specie di “trasformazione chimica ed energetica” che dovrebbe sfociare, a mio parere, in un modo di scrivere personale e originale. A volte parte del “metabolizzato” può affiorare in modo quasi inconsapevole e del tutto naturale.
Mi incuriosisce anche la scelta di narrare in prima persona, e dal punto di vista di un personaggio maschile.
Per quanto concerne l’io narrante maschile in un contesto che affronta una situazione di violenza sulle donne, vorrei precisare che questa è stata una scelta con uno scopo preciso. Io penso che bisogna affrontare tematiche forti anche senza far credere al lettore che lo si sta facendo, ossia portandolo per mano dentro al problema. Ecco perché l’io narrante non è una donna, ma un uomo: un uomo che racconta una storia di violenza, scoprendola lui stesso, insieme al lettore, per gradi, come ricomponendo un puzzle i cui pezzi si sono mescolati. L’io narrante poi è anche una figura maschile positiva, pur con tutte le incertezze e contraddizioni che contraddistinguono l’animo umano: una figura positiva che si contrappone a quella violenta con la quale è abituata a convivere la protagonista Anna. Certamente entrare nel modo di pensare di un uomo ha comportato da parte mia lo sforzo di cercare di capirne la psicologia, che è ben differente da quella femminile.
Lei ha pubblicato anche un volume di poesia, intitolato Voci. Come inserisce questa uscita, ormai di venti anni fa, nel suo percorso? Ritiene che il passaggio dalla poesia alla prosa significhi un mutamento del suo punto di osservazione?
Quando ho scritto Voci stavo attraversando un periodo molto particolare della mia vita: per la prima volta, ancora giovane, mi trovavo a fare i conti con “il dolore” e a cercare di comprenderne il significato. Il libro è dedicato a mia madre, che ha trascorso gli ultimi anni della sua vita immobile in un letto: la mente era lucidissima, ma la sua unica possibilità di comunicazione con il mondo esterno era lo sguardo e il movimento della mano destra. Avevamo stabilito una specie di codice di segni che comprendevamo solo noi. Ritengo che solo attraverso la poesia si possano “condensare e far vivere” le emozioni in una parola. Nella dedica a mia madre scrivo «Oceanici voli di rondini / nell’immenso / stupore di un attimo». Riporto la citazione di Pier Carpi nella prefazione che dice: «Poesie come frammenti di universo, poesie come invito a cantare i momenti della vita, al di fuori del tempo, in quel punto divino dove passato, presente e futuro non conoscono distinzioni, ma sono una cosa sola. La luce perfetta della conoscenza». Già prima del libro di poesie Voci avevo scritto racconti e un breve romanzo, quindi “l’esperienza” della poesia non rappresenta un punto particolare di osservazione della realtà, ma è rimasto sempre per me nel corso della vita un momento unico per esprimere intense emozioni.
Leggendo il romanzo una delle cose che mi hanno colpito è la rapidità di certi passaggi, che non esiterei a definire cinematografica, e la presenza delle cosiddette “spie narrative”, soprattutto quelle utili fin dalla prima pagina a suggerire il clima e i rapporti psicologici presenti tra i protagonisti: mezze frasi, toni, occhiate. Ritiene che nel suo romanzo anche l’ottica cinematografica abbia avuto un ruolo? E, in generale, come si rapporta una donna di teatro e narratrice con il mondo del cinema?
Certamente sì. Un regista sia che si trovi davanti a un palcoscenico o dietro ad una macchina da presa, (mi riferisco naturalmente a film d’autore, che spesso sono la trasposizione di romanzi d’autore, non certamente al cosiddetto “cinepanettone”), sa che per interessare il suo pubblico deve introdurlo nella vicenda “dicendo e non dicendo”, a volte facendogli credere che le vicende vadano in una certa direzione mentre invece poi vanno in tutt’altra. Si seminano indizi lungo il percorso. La descrizione di paesaggi o di stati d’animo poi, che la cinematografia riesce ad evidenziare attraverso la cinepresa, vengono comunque da me ripresi nella narrazione, nei momenti in cui indugio sulle bellezze del territorio o su certi aspetti del carattere dei personaggi. Recentemente mi hanno detto che il libro potrebbe diventare una sceneggiatura cinematografica. Mi farebbe piacere anche se sono convinta che le immagini toglierebbero al fruitore un elemento che solo la lettura di un romanzo può dare: la possibilità di diventare “complice” dell’autore nel profondo della propria anima.
La ringrazio per queste considerazioni. La domanda di rito è: quali sono i suoi progetti per l’immediato, e per il futuro?
Teatrali e letterari. Non amo fare anticipazioni su ciò che sto facendo fino a quando i progetti non si siano concretizzati (è anche questo un retaggio che mi deriva dal mondo del teatro); comunque posso anticiparle che sto completando un secondo romanzo e di pari passo una serie di racconti. Data la mole del lavoro sono progetti che in parte si realizzeranno in un futuro abbastanza immediato e in parte slitteranno tra la fine del 2011 e il 2012.