domenica 11 settembre 2016

Intervista di Carina Spurio ad Enzo Delle Monache ed al suo "Quando un fiume muore".  Artemia Edizioni, 2013.



"Quando un fiume muore, diventa mare”. Lo afferma il protagonista alla fine del romanzo. La frase diventa il titolo del libro e quindi, l’inizio. Di sicuro è un bel gioco di parole ed immagini inserite tra la morte e la vita. Non è raro imbattersi nei romanzi d’esordio, in cui intime memorie possono contenere il rischio dell’ovvio. Non cadere in questa trappola non è semplice ma questa storia nella sua consuetudine scampa al pericolo, perché la scrittura è davvero semplice e regala al lettore immagini che restano. Vi presento un romanzo raccolto e silenzioso, sospeso tra la nostalgia e la radice profonda che affonda nei secoli di storia dei nostri antenati, di bisnonni e di avi, di cui apparentemente sembra persa la memoria. Avete mai provato ad ascoltare il suono struggente della nostalgia? Avete mai percepito il profumo dei ricordi? Del fuoco acceso, della legna che arde oppure, dell’aroma pungente dell’erba appena tagliata? Avete mai sentito il sapore del ritorno? Del ritorno di un prigioniero di guerra? Un sapore che sa di radici amare, ma nel romanzo diventa il simbolo della ricostruzione, della ricomposizione. Dentro il viaggio di parole a cui ci invita Enzo delle Monache attraverso il suo libro dal titolo “Quando un fiume muore”, Artemia Edizioni, 2013, scorre un paesaggio di un tempo lontano, dimenticato. Di un tempo difficile, di lavandini intonacati a calce, di pentole e mestoli di rame, di materassi imbottiti dalle sfoglie delle spighe del granoturco, di case coloniche, del carbone che permetteva di guadagnare pochi soldi necessari ad acquistare il petrolio, di “fascine” e di “ceppe” e di donne laboriose pronte ad eseguire perverse consuetudini, dotate di forza e resistenza inesauribili. In questo viaggio di ricordi, tra le immagini che scorrono veloci, il passato diventa memoria tra i periodi ordinati, precisi come metriche antiche in cui ogni atto viene descritto in con stile limpido e pulito, ma, tra le fatiche e le speranze dei protagonisti è in agguato la guerra. Il libro di Enzo Delle Monache rapisce, allontana gli occhi dal paesaggio urbano, sposta il naso dall'odore nauseante dei gas di scarico, libera l’orecchio dal chiasso di fondo e rende inquietante perfino il silenzio. Il romanzo resta tra le mani fino alla fine, mentre dentro un altro tempo dorme la nostalgia di un ricordo intriso di profumi e di odori. E’ un bel viaggio, è una storia nelle storia, è il ritorno di Gino il 25 ottobre del 1945. Gino che ha raccontato le sue storie […] “dieci, cento, mille volte, nelle fredde serate invernali vicino al caminetto scoppiettante, oppure in estate lungo i lenti pomeriggi di Agosto, all'ombra di un ulivo secolare […].
Buona Lettura!


C.S.: In che modo la scrittura entra nella sua vita?
E.D.M.: E’ entrata per caso, avevo in mente tante scene, tante emozioni, tanti racconti. Il timore di perderli nel buio dell’oblio mi ha spinto a trascrivere quello che avevo in testa. Ed è stato così che le parole sono uscite come una cascata irrefrenabile dalle mie dita. Scrivevo senza riuscire a smettere, le idee, le frasi, le situazioni nascevano e le mie dita le rincorrevano cercando di trasferirle sulla tastiera. È stato così che quello che avevo in testa e nel cuore è finito in un libro.


C.S.: Quando ha iniziato a scrivere immaginava che il suo libro sarebbe stato pubblicato?
E.D.M.: Assolutamente no! La prima idea era quello di trascrivere i racconti, le idee, le suggestioni. Poi ho dato una forma alle varie parti e il romanzo ha preso forma. Ma ancora non immaginavo minimamente di trasformarlo in un prodotto editoriale. Le prime cento copie furono infatti stampate in privato e donate ad altrettanti amici. Erano copie numerate con dediche personalizzate. Ero convinto che quello era già molto di più di quanto volessi inizialmente.


C.S.: Da dove nasce la scelta del titolo?
E.D.M.: Il titolo è nato alla fine del libro, con l’ultima frase del libro stesso. Il titolo è rimasto in sospeso fino alla fine. “Quando un fiume muore, diventa mare” è la frase con cui il protagonista conclude il libro mentre il suo sguardo si perde nell'immensità dell’orizzonte azzurro. Il fiume come metafora della vita di un uomo! Il fiume che lungo il suo cammino incontra fasi di stagnazione, poi le cascate, poi le rapide per poi sparire all'improvviso in un tunnel buio sotterraneo, e poi riemergere alla luce ... fino alla sua fine! Fino a quando diventa Mare. Il fiume diventa mare, ma non sparisce, diventa qualcosa di più grande del fiume stesso.


C.S.: Ci può illustrare la copertina del suo libro?
E.D.M.: ”Bestie da Soma” di Teofilo Patini, un dipinto meraviglioso. Magico per la sua forza espressiva e per la valenza evocativa. Le donne che trasportano legna lungo una brulla salita di montagna. Una donna in evidente stato di gravidanza che si riposa a fianco al suo fascio di legna. Gli uomini del mio romanzo sono come queste donne, sono “bestie da soma”, consumano la loro esistenza all’interno di limiti spazio temporali senza futuro o ambizioni. Uomini che consumano la loro esistenza giorno per giorno, senza potersi concedere il lusso di sperare qualcosa di meglio per se o per i propri figli.


C.S.: Quanto tempo ha dedicato alla realizzazione di questo testo?
E.D.M.: Il libro è stato scritto in 15 giorni ed è praticamente uguale a come è stato scritto. Vi sono state apportate solo pochissime correzioni grammaticali o sintattiche, ma il testo è stato pubblicato così come è uscito la prima volta dalle mie dita.


C.S.: Qual è la parte del romanzo alla quale si sente più legato?
E.D.M.: Il matrimonio di Maria: la docilità, la serenità e la rassegnazione con cui questa donna, poco più che bambina, si proietta nella sua nuova dimensione pronta ad affrontarne tutte le conseguenze, mi ha commosso fin dal primo momento. Ricordo di aver avuto problemi a scrivere perché le lacrime mi appannavano la vista. Maria è la vera protagonista del mio romanzo, di lei si parla poco, ma è lei e sono le donne le vere protagoniste silenziose delle storie che racconto.


C.S.: Peppe e Assunta, Gino e Maria, i suoi protagonisti accompagnano il lettore alla riscoperta di sentimenti semplici, ma è l’intero romanzo che permette al passato di farsi memoria. Ha mai pensato che il suo libro possa diventare una testimonianza per le nuove generazioni?
E.D.M.: Si, l’ho pensato e lo spero! Il libro nasce dalla mia passione per l’ascolto e per la passione di qualche “vecchio” per il racconto. Loro raccontavano e io ascoltavo. Sempre le stesse storie, sempre le stesse parole … e io ne volevo sempre di più, e io che da ragazzo chiedevo sempre gli stessi racconti. Un po’ la stessa cosa che accade oggi, forse, quando i miei figli guardano mille volte lo stesso cartone o lo stesso film. Mi piacerebbe che questo testo fosse letto nelle scuole, come già è accaduto in una classe 2° delle Medie superiori di Larino (CB). La memoria con la valenza del “Testimone” della staffetta: se un atleta non prende il testimone di chi ha già fatto un giro, rende inutile il giro fatto e vano quello che si accinge a percorrere. Affrontare la propria vita senza sapere da dove veniamo, rende inutile tutti i sacrifici fatti dai nostri avi e forse toglie parte del vero significato alla parte nostra di cammino.



C.S.: Lo sfondo del suo romanzo si staglia dentro la prima metà del ‘900 e colora fotogrammi di vita contadina. Le immagini sono nitide, mentre i personaggi sono realisticamente intenti a vivere la vita non priva di tragedie e dolori, compresa la guerra. I nostri nonni, ci ritenevano fortunati, secondo loro la nostra generazione non avrebbe mai fatto la guerra. Per loro eravamo i figli del progresso. Invece qualcosa non ha funzionato e stiamo vivendo anche noi la paura della guerra.

 E.D.M.: Si, la stiamo vivendo, ma ne siamo assuefatti. La finzione televisiva ci ha anestetizzati, ci ha resi insensibili alla realtà! Oggi tutti pensano di aver paura, ma la verità è che siamo bravi a far finta. Oggi tutto è finzione e non ci rendiamo conto veramente di cosa significa vedere alla tv un bambino morto sopra una bomba antiuomo, perché cambiamo canale e ci concentriamo sulla campagna acquisti di questa o quella squadra di calcio. La tragedia è solo finta. Si ha paura come se si recitasse una parte. La guerra quella vera è quella che si vive sulla propria pelle, quella che distrugge le case, che uccide i figli, che annulla esistenze. Purtroppo solo quella è la guerra, il resto è finzione cinematografica.


C.S.: Quali autori l’hanno ispirata?
E.D.M.: Non so rispondere a questa domanda. Io credo che tutto quello che ho letto, tutti i libri, tutti i fumetti, tutti i film che ho visto, tutti i cartoni animati, tutte le canzoni che ho imparato a memoria … tutto quello che ho vissuto e amato, hanno poi ispirato la mia scritture, il mio modo di raccontare la scelta delle parole e dei tempi narrativi.


C.S.: Quale libro sta leggendo attualmente?
E.D.M.: Attualmente sono impegnato nella lettura della nutrita serie di “Gialli” del prof. Elso Simone Serpentini. Li voglio leggere tutti. Sono più di trenta, ma dopo aver letto il primo è impossibile non voler leggere anche tutti gli altri. Il prof. Serpentini trae ispirazione dai casi giudiziari teramani nei cento anni che vanno dal 1861 al 1961. Le storie sono affascinanti non tanto per gli eventi in quanto tali, ma quanto per la realtà sociale e storica in cui sono calati. È magico ritrovarsi nella Teramo di inizio secolo seguendo le vicende di un assassino o di una vittima. Ma sul comodino ho tanti libri che aspettano pazienti e silenziosi di avvolgermi nelle loro trame.


C.S.: Qual è il posto in cui ama tornare?
E.D.M.: Io ho un rapporto strano con il tempo: io amo la mia vita e amo tutto quello che ho vissuto. Tornare nei luoghi dove sono stato è sempre una forte emozione, ma l’essere diventato grande aumenta la paura della morte  trasformando il ricordo romantico in ansia malinconica. Torno nei posti dove sono stato, ma l’ansia soverchia la nostalgia.


C.S.: Qual è il suo rapporto con la fede?
E.D.M.: Io e la fede abbiamo un ottimo rapporto. Camminiamo insieme da oltre 40 anni, si può dire che ci rispettiamo ma non abbiamo ancora deciso di fonderci l’uno nell’altro. Io sono troppo razionale per dare senso ad una parola che non ammette l’analisi critica. Purtroppo per me è ancora molto più importante “capire” che “credere”. Non concepisco la possibilità di credere in qualcosa che non posso capire. Il bisogno di sentirmi parte di qualcosa più grande di me, invece, è un altro discorso.


C.S.: Il coraggio e la paura, cosa sono per lei?
E.D.M.: Compagne imprescindibili di ogni passo. Non ho mai fatto niente senza aver dentro di me una terribile paura di sbagliare. Per mia fortuna però, la paura non mi blocca, non mi immobilizza, la paura aumenta la produzione di adrenalina e acuisce i miei istinti. Io amo aver paura, perché sento che tutto in me si accende e aumenta la mia capacità di produrre dubbi e quindi senso critico. Il Coraggio poi … è quello che mi permette di chiudere con la fase di studio e passare a quella operativa, qualsiasi sia l’avventura nella quale mi sto per buttare.


C.S.: Un ricordo ricorrente …
E.D.M.: Non è facile rispondere a questa domanda perché io ricordo tante cose. Io vivo di ricordi. I ricordi, il mio passato permea ogni istante del mio presente. Citarne uno farebbe torto a qualche altro ricordo.


C.S.: Di recente ha pubblicato un nuovo libro dal titolo “La pesantezza del vuoto.” sempre con le Edizioni Artemia. C’è un nuovo progetto letterario nel suo futuro immediato?
E.D.M.: Si, sto scrivendo un nuovo romanzo. Ho praticamente iniziato subito dopo la pubblicazione de “la pesantezza del vuoto”. Sarà stata l’onda emotiva, o la carica adrenalinica scaturita dalle presentazioni del romanzo, ma un pensiero che avevo in testa da tempo ha preso forma, e senza che me ne rendessi conto, i personaggi hanno preso forza e struttura tanto che iniziare a scrivere è diventato una necessità.


C.S.: L’Abruzzo, cosa rappresenta per lei?

E.D.M.: L’Abruzzo è la mia casa, io sono Abruzzese fin dentro il mio intimo. Ne ho respirato l’aria, ne ho bevuto l’acqua, ne ho guardato il mare, ne ho mangiato i frutti, ne ho amato il popolo. Io ho girato tanto, ho visto tante Regioni del mondo, ho mangiato tante pietanze ed amato tanti vini. Poi però torno a casa e sento che io sono questa Regione, io potrei pure trasferirmi per sempre in un Paese straniero ma resterei per sempre un abruzzese puro e tenace. 


venerdì 22 maggio 2015

Sotto Falsa identità di Caterina Falconi


“Sotto falsa identità” di Caterina Falconi: la storia di quattro donne con le spalle al muro

“Sotto falsa identità” di Caterina Falconi: la storia di quattro donne con le spalle al muro
mag 22, 2015
“Alle mie figlie, che stanno in cima al mio cuore, a Francesca Bonafini, che è mia sorella, a Romano De Marco, che è stato il primo a leggere il romanzo e, ancora una volta, a te.”
Sotto falsa identità
Ho ritenuto opportuno, per quanti di voi leggeranno questo articolo e non avranno il libro davanti agli occhi, riportare la dedica dell’autrice prima di parlare del suo romanzo. Perché dentro un libro, prima del primo capitolo, in quelle poche righe dedicate, è contenuto un mondo.
Nella pagina successiva un passo di Yukio Mishima (scrittore, drammaturgo, saggista e poeta giapponese), da Una virtù vacillante: “Pertanto io la esorto a una scelta etica; o, se preferisce che mi esprima diversamente, le consiglio di usare la forza che nasce quando si è con le spalle al muro. È tutto quello che sono in grado di dirle.
È la veste cartacea di ‘Sotto falsa identità’, l’ultimo libro diCaterina Falconi. Il romanzo racconta la storia di quattro donne con le spalle al muro, in uno specifico momento della loro vita, che non hanno la possibilità di difendersi e di salvarsi perché schiave delle proprie vicende personali, tutte in attesa di un segno decifrabile che possa portare un cambiamento. Reiko, la protagonista, è un medico di sangue misto. Ha lavorato in Benin con Medici per il Mondo.
Fu su una neonata immersa in una tinozza celeste che Francois baciò Reiko per la prima volta. Dopo poche ore facevano già l’amore: ‘Io e Francois avevamo accostato le brande al centro della mia camera.’ ‘Sentivo le dita del mio collega scorrere sulla pelle e individuare i punti sentibili con una competenza clinica.’ Reiko e Francois, oltre alle brande, avevano unito le mani e i loro corpi. Tra le righe della loro storia, la corporeità sembra un minuscolo granello di sabbia che assume la grandezza e la consistenza di una duna del deserto che travolge, e regala campo visivo alla parola appena arriva a rappresentare l’immagine della fusione ma anche dell’assenza quando di colpo, Francois sparisce.
Reduce dall’abbandono da parte del suo fidanzato e rassegnata per assenza di indizi a risolvere il mistero della sparizione di Francois, Reiko si ritrova incastrata in una nuova relazione sentimentale e accetta il rischio di perdersi e mortificarsi fino a compiere le azioni peggiori sbirciando il profilo dell’amante con la complicità di un suo amico: ‘Chi è quel signore dallo sguardo vellutato che abbraccia la moglie sorridente nella foto sulla bacheca di facebook?’, si chiede Reiko sotto falsa identità. ‘E perché Marco sorrideva in quel modo, abbracciando la moglie, nella foto di famiglia? Possibile che si possa fingere un simile appagamento? E se fosse realmente appagato, perche mi cercherebbe tanto?
Tra una domanda e l’altra, Reiko teme di trasformarsi in un’importuna lettrice della Aspesi. La definizione mi fa sorridere piacevolmente, non a caso la Aspesi, in una sua frase estrapolata da “Vivere in tre”, Rizzoli, 1981, la sa più lunga del triangolo tanto che vi aggiunge un lato in più: ‘Tra la coppia e il raggruppamento esisterebbero soluzioni meno pericolose e addirittura più vantaggiose: per esempio il dignitoso triangolo e il riposante quadrato, che permetterebbe rapporti più equi di spazio, solitudine, libertà, solidarietà e compagnia.’
E colpo di scena, il profilo fake creato da Reiko, aggiunge la foto del quarto elemento (in questo caso assente), la foto di Francois, il suo fidanzato scomparso anni addietro. Dentro una dipendenza amorosa le forme perturbanti che sembrano provenire dall’esterno, effettivamente riflettono la propria realtà interiore. In questo caso, la realtà interiore è un obiettivo: sedurre Luisa la moglie di Marco, intrufolandosi nell’intimità virtuale dei due coniugi con la complicità di Marco: ‘E lui ha accettato. Divertito. Forse perché ha intuito chi fosse quel conoscente. Nella perversione implicita della nostra condizione di adulteri, io ho barattato la memoria del mio grande amore scomparso col diritto a sbirciare in un presente altrui che dell’amore ha solo le movenze.
Caterina Falconi
Il meccanismo perverso e crudele (vestito da gioco)ideato dalla protagonista, ha lo scopo di sputtanare i partecipanti e capovolgere i ruoli. Tra Reiko, donna abbandonata e che riproduce l’assenza di Francois legandosi ad un uomo impegnato, e una Luisa dai seni generosi e gli abiti dai colori accesi, s’ interseca la figura di Marilena, ostaggio di sua figlia Elisabetta, costretta a vivere segregata in casa con il violento ex marito malato di Alzheimer dal quale si era separata anni prima.
Nel romanzo di Caterina Falconi in sequenza ordinata ci sono le donne: Fiore, Marilena, Luisa , Elisabetta, Rirì, sospese su un filo sottile che dondola sulla cruda realtà, aperta come un baratro sotto di loro: non resta che sperare che quel filo tenga, che non si spezzi lasciandole cadere. Proprio nel momento in cui tutto sembra perduto arriva il riscatto come un omaggio alla speranza e queste donne trovano la forza di reagire:Reiko trova la forza dalla verità, Marilena si salva da sola, nonostante la fragilità della sua età.
Il tempo non aiuta solo a dimenticare o a lenire le ferite. Il tempo è un meccanismo ciclico, uno scorrere di attimi chiamati secondi e poi minuti, fino ad arrivare ai giorni e agli anni. Il tempo si trasforma in realtà e la realtà ha un modo tutto suo di presentarsi, spesso è inaspettata, per questo può costringere a subire le proprie scelte, ma anche quelle altrui. Quando l’equilibrio cede non resta che agire, perché il mondo della finzione è una prigione, non un posto sicuro.
Alla fine del romanzo non è il riscatto il punto più importante, quanto aver compreso che non si può mentire a sé stessi troppo a lungo. Il mio filosofo e saggista preferito, tal Emil Cioran, invece, dopo aver letto il romanzo di Caterina Falconi, avrebbe concluso con questa citazione: ‘Io credo che un libro debba essere davvero una ferita, che debba cambiare in qualche modo la vita del lettore. Il mio intento, quando scrivo un libro, è di svegliare qualcuno, di fustigarlo. Poiché i libri che ho scritto sono nati dai miei malesseri, per non dire dalle mie sofferenze, è proprio questo che devono trasmettere in qualche maniera al lettore. No, non mi piacciono i libri che si leggono come si legge un giornale: un libro deve sconvolgere tutto, rimettere tutto in discussione.’

Caterina Falconi è nata ad Atri (Te) nel 1963. Laureata in filosofia, ha lavorato due anni nel reparto pediatrico di un ospedale africano come volontaria. Attualmente è educatrice in un istituto di riabilitazione di Giulianova, dove vive con le due figlie. Ha vinto il premio Teramo nel 1999. “Sulla breccia” è il suo primo romanzo.

Written by Carina Spurio

giovedì 21 maggio 2015

Intervista di Carina Spurio al pittore Pierpaolo Catini

Intervista di Carina Spurio al pittore Pierpaolo Catini

Intervista di Carina Spurio al pittore Pierpaolo Catini
mag 14, 2015
Nell’immenso e vasto territorio dell’arte contemporanea il pittore è un viaggiatore solitario che insegue con ostinazione i suoi percorsi tra arrivi e partenze, nel tentativo di catturare e fissare la sua dimensione creativa invisibile e sfuggente che unisce l’idea di ciò che non potrebbe essere altrimenti (Necessità) e lo spazio fisico, il presente e l’atto illusorio della raffigurazione.
Pierpaolo Catini
Egli è una specie di solitario, schiavo di un’ immediata esigenza interiore pronta a dare forma e architettura al suo sentire e che vive per la sua ispirazione. L’artista, in genere, è un essere non riconosciuto, geometricamente irregolare, che convive immerso nel lento tempo del raccoglimento e del pensiero ponderato.
Difende l’originalità, la perfezione e la qualità,prima di dare un risvolto commerciale alla sua arte. Spesso si pone interrogativi sul presente e mentre lega tradizione ed invenzione con il filo dei colori, schizza il presente con le emozioni insolute del passato che colano, proiettate nel futuro. Così, il tempo, le luci, le ombre e la memoria, armature sostegno dell’opera dipinta, spostati dal loro contesto ordinario, sono trasferiti in un altrove collocato in una sospensione alienata e trascendente. La realtà sorprende quando meno te lo aspetti, specialmente se si ha una particolare predisposizione a captare quello che solitamente non si vede.
In questo modo e da una circostanza apparentemente banale i miei occhi intercettano le opere pittoriche di Pierpaolo Catini, diplomato all’Istituto D’arte Ceramica ‘F.Grue’ di Castelli in provincia di Teramo, che dipinge sin dall’infanzia insieme al padre, Fernando Catini, noto paesaggista.  Nella sua Gallery leggo: ‘Il continuo movimento di segni, forme e colori, apre nuove vie comunicative con tocchi cromatici vivi e texture innovative.’
Ordinatamente in fila sono disposte le seguenti opere pittoriche: ‘Campo di Grano, omaggio a Van Gogh’, ‘Red Oak’, ‘La Via dei Ricordi’, ‘Barche’, ‘Primavera’, ‘Rosa d’Inverno’, ‘Stagno’, ‘Villaggio Norvegese, omaggio a Frits Thaulow’,  ‘Autunno’, ‘Sguardi’, ‘L’ora del Caffè’, ‘Innatural’, ‘Cavallo di Battaglia’, ‘Tormento’. Non s’intuisce all’istante la direzione su cui poggiare lo sguardo tra l’intensità dei colori, ma si arriva a perdersi tra il ‘ Campo di Grano ’ e la ‘Quercia Rossa’ (Red Oak), prima del punto in cui s’immaginava ci fosse il cielo. Tra le tecniche tradizionali e quelle inusuali, tra le stagioni e la strada dei ricordi che arriva sull’uscio di una casa, Pierpaolo Catini ferma su tela il paesaggio personalizzato che ricorda la ceramica della sua terra, evoca stati d’animo con i rossi del ‘Tormento’ per concludere con l’Action Painting’ (pittura d’azione) nel gesto creativo con cui proietta se stesso sperimentando il ‘Dripping’, facendo cadere o gocciolare i colori dal tubo sulla tela, lasciando al caso la responsabilità di tracciare un segno.
Questa intervista da vita e forma al colore, lo fa parlare, contorcere, condensare, rapprendere, fino a fargli prendere vie inconsuete dentro un forno, sulla ceramica. Come diceva Jung: ‘In ultima analisi, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata.’

C.S.: Il suo percorso artistico nasce da una collaborazione tra padre e figlio. Può raccontare ai nostri lettori di questo binomio così affascinante che vede coinvolta l’arte tramandata?
Pierpaolo Catini - opere
Pierpaolo Catini: Fin da piccolo ho ‘aiutato’ mio padre nel suo lavoro giocando con colori, pennelli, acqua, spugnette e quant’altro si possa trovare in un laboratorio d’arte ceramica. Non so quanto i miei occhi siano stati influenzati dalle migliaia di pennellate e dai più disparati oggetti decorati dai fratelli Catini (Fernando, mio padre e Gabriele, suo fratello), ma ricordo che all’età di sei o sette anni alle cinque del mattino ero in piedi a disegnare. Dagli occhi, e poi dall’anima, qualcosa si è sempre mosso dentro me spingendomi a tirare fuori la creatività. All’età di sedici anni dipingevo con mio padre nella sua bottega. Ricordo benissimo i primi approcci con la ceramica, il pennello troppo bagnato o troppo asciutto sullo smalto. In breve mio padre, insegnante bravissimo e paziente si stupì e mi lasciò libero, come solo il mio spirito può essere. Dipinsi paesaggi di Roma Sparita (acquerelli di Roesler Franz) e la verità è che non c’è stato nessun vero insegnamento in questo. Cercavo di riprodurre fedelmente i colori, non sapendo bene come mischiarli e non avendo ancora studiato arte, ma, in qualche modo, il quadro usciva fuori. Ed effettivamente era romantico il nostro binomio: quello di un ragazzo all’epoca punk completamente immerso nel classico, ed un uomo paziente, a volte duro e burbero che tramandava tutto il suo sapere, i segreti dei suoi colori e i passaggi del suo famoso paesaggio, a questo ragazzo che in breve stravolse il percorso artistico classico senza mai rinnegarlo. Non so come esprimere la bellezza di quei momenti spesso non capiti in adolescenza. Posso solo dire che mi hanno insegnato quasi tutto quello che so della vita, se si sa leggere tra le righe, lasciandomi nel cuore la sicurezza che l’artigianato è un turbinio di emozioni e creazioni vive, che  coinvolgono corpo e mente in un processo lungo che non si conclude con la sola pittura. Ed il calore del forno era piacevole solo in inverno… se posso soffermarmi sul lato affascinante, dato che me lo ha chiesto, senza dubbio mi lasciavo incantare dai racconti dei vari artigiani del passato, da quelle storia di un tempo raccontate in modo superbo da mio padre, da questa discendenza e appunto questa arte tramandata. In qualche modo a Castelli siamo quasi tutti legati, certo questo succede in tutti i piccoli paesi ma la nostra caratteristica è essere legati nell’arte e non voglio essere esageratamente poetico in questa sede ma respirare l’aria del museo di Castelli dove vi sono capolavori assoluti e sentirsi parte, in qualche modo, senza sentire per forza il bisogno di sapere come precisamente, senza andare a sbirciare nell’albero genealogico del tutto, di un insieme astratto e passato di colori, di paziente ricerca della perfezione sia nella foggiatura che nella decorazione… è emozionante e coinvolge arte, storia, geografia, filosofia, antropologia.

 C.S.: L’arte, per lei, non è solo pittura ma anche scultura, argilla, scrittura e musica. In che modo riesce a conciliare e a far convivere tutte queste arti in una persona sola?
Pierpaolo Catini - opere
Pierpaolo Catini: L’approccio con l’argilla è stato nei primi anni di vita. Quando in bottega i miei genitori, in particolare  credo mia madre, che ha sempre collaborato, faceva dei divertenti animaletti per farmi giocare. Io in qualche modo mi sono sempre divertito, come un gioco avendo la fortuna di averlo sempre a disposizione,  ma imparando qualcosa negli anni in cui ho frequentato l’istituto d’arte ceramica fa grue. Non mi è mai  interessata più di tanto la foggiatura, la forma tonda e liscia, la perfezione in quel senso. Anzi. Al contrario  ho sempre cercato texture innovative, come in tutti i campi, anche in pittura. Cercavo la forma riccia, o  creavo sculture sperando in un’essiccazione adeguata, di aver alleggerito bene l’interno, se necessario. Mi sono sempre spinto al limite per non passare personalmente per cose già viste o già fatte. La riuscita non mi è mai interessata più di tanto. E la sperimentazione che mi porta a superare questo limite e mi porta  davvero a godere del piacere della riuscita quando creo qualcosa senza saperne bene le basi. E nei concorsi  a cui partecipavo con la scuola è sempre andata molto bene. Con ‘Scheletro di un albero Ossidato’ scultura  credo ancora esposta in una scuola superiore a Roseto appunto, tornado alla nostra domanda, le passioni si intrecciano. È una scultura di argilla, con colori che ricordano un albero tutto, quindi, come se fosse in qualche modo di metallo, ma è allo stesso tempo la spina dorsale di un uomo, della terra, del suo lamento. Con la scultura mandai uno scritto, una didascalia, una spiegazione e per me rimane ovvio che in qualche modo, non per tutte le arti con lo stesso equilibrio, le varie passioni si intreccino e portino più che altro a  spiegare, con la scrittura quello che si è fatto e credo di non averlo mai fatto solo in modo tecnico e sterile, poiché non è tecnico e sterile il modo in cui sogno sulle mie opere. Scrivere ho sempre scritto fin da giovanissimo, appuntando le mie emozioni e raccogliendo il tutto in un libro di racconti e poesie. E la musica l’ho quasi sempre lasciata per l’anima, come mezzo per esprimermi, come forte ispirazione, anche se poi mi sono cimentato in molti strumenti, a modo mio, come per tutte le cose che faccio. Come si può non provare o avere voglia di sentire il brivido di suonare le percussioni? E sapendo che gli approcci ad ogni strumento sono molto differenti, ho dovuto provare la voglia fisica di suonare una batteria, concentrandomi di più poi su chitarra ed ora nel basso. Suonai il sax per un breve periodo e mi piace sperimentare col pc. Conciliare tutte queste cose dipendeva da quanto mi lasciassi andare ad esse, da quanto non mi obbligassi a farle contemporaneamente. Col tempo aspetto che l’impulso si faccia avanti da solo, senza sforzi, ed ora vengono da sole. Non c’è giornata in cui non faccia note e segni, anche per poco, perché non è nella  quantità ma nella qualità di quello che sento. Un segno può portarmi ad una nuova serie. Mentre tutto il  resto nella mia vita è ancora e comunque un “contorno”, una pausa riflessiva e creativa, i colori regnano  sovrani. Mi sento in continua evoluzione e lascio che dentro me le cose accadono, perché verranno fuori al  momento giusto e sicuramente diverse nel modo in cui le ho progettate e sognate. Lasciarsi stupire dalla creatività è quanto di più vivo possa avere. È ovvio che ci sono anni e sperimentazione e progettazione,  tempo e malumori,  gioie e materiali mischiati con insuccesso. Ma succede che il quadro lasciato per due  anni in un angolo venga finito un giorno con una pennellata.

C.S.: Il colore denso è un’ ottima idea, da spruzzare liberamente su una base di colla e calce nei suoi due quadri: ‘Innatural’ e ‘Cavallo di Battaglia’. Ricordano il pittore espressionista astratto Jackson Pollok, famoso per i suoi grandi ‘Dripping’. In che modo arriva all’Action Painting e di conseguenza al Dripping?
Pierpaolo Catini: Per curiosità. La curiosità mi ha portato a sapere senz’altro più cose. In questo caso ci tengo a sottolineare che la gestualità è importante. Lanciare un secchio di vernice bianca su cenere di stufa a legno e guardarne  il lento asciugare e mutare è sensazionale. Si, la mutazione è la cosa che mi affascina di più. Questo quadro, ‘Innatural’, non ha altro. Soprattutto non ha colla. La cenere si è asciugata ed essiccata al sole con la vernice  da muri. Quel quadro che è una delle poche tavole di legno, tra l’altro, è stato un anno alle intemperie. L ‘ho lasciato sotto la pioggia, la neve, il vento e infine il sole che ha asciugato bene il tutto, dando piccoli  ritocchi di tanto in tanto e aspettando la possibilità di alzarlo. Il rosso l’ho schizzato alla fine. Sono tutti materiali che avevo, non ho comprato nulla. Ho ricercato il senso di qualcosa di forte, usando bianco, nero e  rosso. Da qui l’ispirazione per fare il secondo. Ho usato i colori del sangue e della violenza proprio per manifestare il contrario. Per ‘Cavallo di Battaglia’, il discorso è differente. Qui, ho usato la colla per attaccare il ferro di cavallo ed il  pezzettino di zoccolo datomi in paese da un artigiano, ma la prima stratificazione è data da oli. Per creare  un effetto materico, una parte rialzata, ho svuotato un posacenere pieno di cicche e versato sopra tutto il quadro molta colla. Questo quadro è contro la violenza sugli animali, in particolare vedendo un palio ho  capito che proprio non è possibile e per me inconcepibile usare gli animali per i proprio scopi più inetti,  quale il divertimento di una banalissima corsa. La vernice rossa sul ferro dovrebbe rendere quest’idea. Ho intenzione di continuare questa strada che mi ha dato molto, ma ultimamente mi sono concentrato su  una linea più delicata, acquerelli e disegni coi pastelli. La spinta per tornare a farne però è attiva. Mi sto  organizzando poiché per quello che ho in mente ho bisogno di spazio.

C.S.: Da dove trae l’ispirazione?
Pierpaolo Catini - opere
Pierpaolo Catini: L’ispirazione è in tutte le cose. I miei grandi maestri sono stati Van Gogh e gli impressionisti all’inizio.  Quindi lo studio della storia dell’arte mi ha ampliato gli orizzonti da ragazzo. E portato a dipingere anche su  cartoni quando non avevo le tele. I paesaggi e la natura hanno sempre influenzato il mio percorso. Ma non  sto dicendo quello che avrei voluto dire da subito. Viene dagli occhi e dal cuore. Mi attende un viaggio a  New York e sono certo che gli occhi si colmeranno di colori e grattacieli. Se mi conosco un po’ farò  sicuramente i “miei” grattacieli rivisitati. Dipingo sempre ciò che mi circonda. Mi soffermo anche sulle  piccole cose, foglie, oggetti, frutta. Di animali ne ho fatti molti, ma sempre o quasi astratti o più animali  insieme. Spesso mi basta un ricordo che si vede a malapena della cosa che voglio ritrarre. Difficilmente  ormai faccio figure realiste. Ma qualunque cosa è ispirazione in chi vuole guardare, scrutare, capire. È con occhio e punti di vista diversi che disegno le cose. È una cosa interna, un rumore, qualcosa che scalpita.  Non è qualcosa che si trae, qualcosa che esce, che deve uscire.

C.S.: Tecnicamente, quando inizia un quadro, segue un metodo preciso?
Pierpaolo Catini: Sono un creativo. È l’unico termine che amo e credo mi rispecchi. Mi piace usare le mani per fare  qualcosa che non c’è. Non ho uno stile unico e riconoscibile, non un percorso lineare che porta ad essere un pittore di una  determinata cerchia. Ho fatto il mio “impressionismo”, il mio “espressionismo”, la mia Action Painting, i miei polimaterici, i miei acquerelli, le mie amate illustrazioni. Ho cercato di innovare nella tradizione. Lì  dove mio padre, paesaggista di Castelli, mi insegnava lo stile classico, io ho tirato fuori paesaggi incompresi,  “sbagliati”, come Red Oak, una quercia rossa totalmente in primo piano senza spazio per respirare. Ho buttato cenere su tavola lasciandola per mesi al sole vento e pioggia , con schizzi di vernice bianca e rossa,  materiali che avevo, aspettando pazientemente che la tavola asciugasse. Cercando risultati con le mie vie  differenti è nato ‘Innatural’, appunto un esempio di Action Painting, amando Pollock. Un omaggio a Van  Gogh nasce da strati e stratificazioni infinite di olio  su tela 50 x 100, come la dimensione del suo favoloso  campo di grano con volo di corvi… trovando nella texture che ne esce (quadro da toccare e sentire) spunto  per un altro progetto in fase di crescita, appunto “texture”. L’acquerello mi ha sempre intrigato per la sua  delicatezza, ma come al solito mi sono dissociato subito dall’usarlo come si “deve”.  Dalla carta sono  passato a godere delle bollicine di acqua che l’acquerello lascia su tela. E sono nati molti quadri. Poi sono  tornato alla carta creando il progetto ‘lines’, strisce di colore ad acquerello pastellato con pennellessa: sono A4 da fotografare insieme, più o meno tre strisce per foglio, sono un oggetto di design, possono  essere quadri o installazioni, un insieme da costruire diversamente su una parete o dei veri e proprio  elementi modulari e facendo delle varie foto ulteriori opere con luci differenti. Vivo di colore  e so che devo creare in quanto bisogno fisico. Spesso senza una progettazione iniziale e con  una confusione che mi brucia l’anima. Solo e senza parlare lo faccio. Forse per salvarmi e credo sia l’unica  cosa che so fare. È uno sfogo intimo stando con me. Dove spesso le lacrime non arrivano più arriva il colore  il getto, la linea, lo spunto il fuoco che ho dentro. Non mi incanalo e non sono riuscito a fare bei sorrisi a chi  vive di arte e voleva anche aiutarmi. Io so solo che lo faccio senza pretese e ciò non vuol dire che non credo  in me, ma io non cerco l’aggancio politico. Non sorrido al mondo quando non mi va e godo nel mio  risorgimento. Ho creato il progetto ‘La Tua Storia in un Quadro’.  Può sembrare un disegno semplice, senza collegamenti,  poco fuso, invece è la storia della vita di una persona, cioè quanto di più profondo e importante possa  esserci. Sto cercando di specializzarmi nel disegnare più significati insieme concatenandoli nelle linee, ma  uscendo dal figurativo. Nella TSQ (chiamo così la tua storia in un quadro) io chiedo  le  passioni  dell’interessato, una foto, le sue origini, tutto ciò che possa dirmi, usando una scheda, e in un foglio disegno  la sua vita. Questa persona deve rivedersi subito nel quadro e credo che tutti vorrebbero la proprio storia in  un quadro, disegnata. Il progetto, nel pieghevole, lo presento così ‘Non è solo un disegno ma la storia di una vita: nasce dalla voglia di racchiudere il vostro percorso e le vostre passioni, in un quadro speranzoso per il futuro e colmo di significati; i significati che voi avete creato per costruirvi il sogno e che io racchiudo, col mio punto di vista, nel migliore dei modi, in un piccolo foglio.’ Per quanto riguarda gli oli, mi sono sempre distaccato anche qui dalla maniera classica. Dal dovere  aspettare che il colore asciughi. Io butto colpi di colore puro sulla tela. Curandomi solo dell’accostamento di  colore che mi piace in quel momento… cercando solitamente quasi sempre cieli, alberi, natura, quella  natura che salva da pace o temporali, fa freddo o scalda il cuore. Stamattina ho iniziato Scratches (Graffi), dei disegni dove i contorni sono dati da tratti di colore  sovrapposto molto decisi, nervosi ma puliti, dei graffi per l’appunto. Da questa sperimentazione vorrei  arrivare a disegnare l’intero oggetto solo coi tratti.

C.S.: Dei suoi quadri qual è il suo preferito?
Pierpaolo Catini
Pierpaolo Catini: Il mio preferito è senza dubbio l’omaggio che ho fatto a Van Gogh. Sulla linea del Campo di grano con  volo di corvi ho fatto il mio campo di grano con una texture di oli molto materica, da toccare con mano e  sentire.

C.S.: Che tipo di musica ascolta?
Pierpaolo Catini: La musica è una grande passione. Ascolto molta musica e mi piace variare soprattutto quando dipingo, sia  col rock, jazz, indie, reggae. Ascolto spesso i suoni della natura e mantra. Non ho un genere preferito.  Ascolto tutta la musica, quella buona, degna di avere questo nome.

C.S.: Progetti per il futuro?
Pierpaolo Catini: Nell’immediato futuro c’è un viaggio a New York che mi attende. Vado a trovare la mia famiglia. E sono  certo che anche tutti i miei progetti attuali saranno stravolti e rivisitati da questa esperienza e che me ne  porterà di nuovi. Inoltre tornerò all’Action Painting ed al Dripping poiché i tempi sono maturi. Sento la  necessità di gesti e colori nervosi, così come al contempo il progetto Lines e Scratches li riservo ai momenti  di riflessione. Per ogni emozione un nuovo progetto. Tra l’altro non posso lasciare la matita acquerellabile  che ultimamente mi ha dato molto e portato dove non credevo. Inoltre con il basso acustico, non vorrei  parlare troppo, ma ho in mente buone cose e fotograferò tutto.

C.S.: Qual è il suo rapporto con la sua terra d’origine?
Pierpaolo Catini: Amore e odio ovviamente. Amo l’Abruzzo, la sua pace e i miei monti. Non so se esistano posti più belli. Sento le mie radici in questi luoghi senz’altro, ma allo stesso tempo non ci sono opportunità come in una grande città. Anche lo scambio culturale è scarso.

Pierpaolo Catini (Atri, 1979) vive e lavora a Teramo dedicandosi totalmente alla passione artistica; è diplomato all’Istituto D’arte Ceramic’ F.Grue’ di Castelli e  dipinge su maiolica sin dall’infanzia insieme al padre pittore, Catini Fernando, noto paesaggista. Si laurea in Scienze della Comunicazione e matura la sua espressione ricercando nuove vie comunicative. Si dedica alle arti più varie, come la musica, la scultura in argilla e la scrittura pubblicando il libro ‘Marionetta’, antologia di racconti e poesie,  nel 2009 con Tespi  Editore. Vince il secondo Premio ‘Pasquale Celommi’ di Roseto con una scultura in argilla refrattaria decorata e partecipa a mostre collettive  come: “Arte contro la violenza”, a Teramo.

Written by Carina Spurio

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sabato 7 marzo 2015

8 Marzo 2015: Donna/Danno. Pensieri, parole e immagini di Carina Spurio

8 Marzo 2015
 Donna/Danno. Pensieri, parole e immagini.
di Carina Spurio
Quando si cerca di raffigurare un’immagine interna con una parola, con la pittura o la poesia, ci si può accorgere, ad opera realizzata, che la stessa è inadeguata, perché il linguaggio che ambisce ad una forma, può non essere fedele alle vibrazioni interne. Forse è per questo che Platone nella “Lettera settima” affermava che in fondo la verità è inesprimibile, il vero insegnamento non passa attraverso le cose scritte, quelle che si consumano nell'atto in cui vengono espresse, ma attraverso altre modalità. Quindi, contempla l’esistenza di un attimo in cui ciò che si è colto e capito, può non essere comunicabile con gli strumenti che possediamo. Si dice che le donne parlano, parlano, ma se chiedono, sanno già la risposta. Con quale altra modalità potremmo dare l’idea di sentire in profondità la verità o la menzogna in un suono che è una risposta? I rapporti sono assolutamente personali e il suono viene percepito a seconda della sensibilità di chi lo ascolta. La chiave di interpretazione, dunque, è all'interno, nell'intuizione di base che guida il nostro istinto e che può amplificare l’intuito. Ma questo interno, non è spesso facilmente estrinsecabile nelle varie forme d’arte. Anche se ci si prova continuamente, né una quadro, né una poesia, potranno dare il senso di ciò che vuol dire essere una donna. Nessuno, ha mai rappresentato realmente la necessità di comunicazione di questi esseri affascinanti che sono una forza nel mettere le parole in fila per intrecciare un senso, a sostituirne alcune per ingannarne altre e a strozzarsi con quelle che rimangono in gola, quasi per confutare l'esser portatrici sane di utero. E quindi mutevoli, isteriche, impulsive, intuitive, agitate dall’ormone-umore e trascinate dal fiume mestruo. La loro vita non inizia solo l’8 Marzo di ogni anno, quando qualche altra donna decide per ricorrenza di parlarne, ma inizia ogni giorno. Nessuna di loro, ha mai detto niente dei chilometri di indumenti stirati o dei chilometri di sillabe intrecciate a notte fonda. Neanche di quando scrivono con le unghie sui muri dello stomaco ogni volta che finiscono dentro un amore sbagliato. E della labbra indurite. Del sonno che non arriva. Degli anni che passano. Dei padri e delle madri. Delle case senza pavimenti e senza pareti, durante i sogni. Delle notti senza un cielo. Dei no che sono si. Dei si che sono no. Delle fughe. Dei silenzi. Delle attese. Dei mi manchi o dei non sei mai andato via. E ogni tanto, parlano da sole: specialmente se hanno perso quel senso di appartenenza in amore che chiamano magia. Oppure, quando la voglia di possedere i pensieri dell’altro, aumenta il desiderio di forzare la porta dell’angolo segreto che abita nella mente. E mentre alcune credono ancora nei sentimenti, altre hanno perso la voglia di entrare nella stanza dell’amore per guardarci dentro. In realtà, le donne, solo una cosa non sanno mai dire con certezza: se hanno più scarpe o più paranoie. Sanno che non sanno mai cosa mettersi. Sanno che Cupido era femmina, e come loro, in macchina, metteva la freccia a sinistra per andare a destra. Ma continuano a comunicare, a parlare del più e del meno, tra i gesti quotidiani veloci e meccanici, le corse dietro ai figli e le solite amnesie che generano le seguenti domande: ”Ho spento il gas?”. “Ho comprato il liquido per i piatti?”. “Dove ho messo le chiavi della macchina?”. Sulla scrivania della donna che sta scrivendo, immobili, tanti libri di scrittori e Pietro, il protagonista del primo racconto del libro di Fabio Petrella dal titolo “Dove non arrivano i sentieri”, Palumbi Edizioni, che “percorre il sentiero del paese a grandi balzi verso la casa di Clara, l’unica donna  nel paese che sapeva come far nascere suo figlio Vincenzo.” Vincenzo, nasce il 25 febbraio del 1926Poggio Umbricchio, una frazione del Comune di Crognaleto in provincia di Teramo, poggiato su uno sperone di roccia nel territorio dei Monti della Laga. Emigra in America in cerca di fortuna per sfuggire alla miseria. Il pastore ritorna nella sua terra ormai anziano, si parla ancora di esodo come ai suoi tempi, questa volta non per tentare la fortuna ma per avere la possibilità di un lavoro non precario ed un esistenza almeno dignitosa. La ciclicità della Storia ritorna; come i nostri nonni/ genitori parecchi anni fa, oggi tocca alle nuove generazioni affrontare  la migrazione, indirettamente imposta dalla preoccupante situazione politica. E poi Giorgio, il nipote di Giovannino che in America era andato da solo all’età di 18 anni, dopo aver perso il fratello crivellato dalle granate. Giorgio, il protagonista del primo racconto del nuovo libro di Giuliana Sanvitale dal titolo “America e altri racconti”, Duende (Gaalad Edizioni snc), 2015, che dall’America arriva in Italia e ritorna al paese del nonno. “L’America era l’America!”, scrive Giuliana Sanvitale, lo ripetevano tutti, anche i viandanti che attraversavano il paese e Giovannino comprese che non aveva scampo, doveva andare.” Dietro ogni partenza di un uomo c’è sempre una donna, sia mamma, sia moglie, sia compagna, sia amica. Ci sono grandi emozioni nel tratto che segue i contorni del volto di una donna. Forse, solo i pittori lo sanno, per questo si ritrovano in un punto dove si perde lo spazio per le parole che spiegano la divina arte e colorano i seni di carne, gli sguardi pervinca e le labbra rosse. E “le saboteur tranquille”, tal Renè Magritte, non a caso, in “Lo stupro”, al posto degli occhi inserisce due seni, l’ombelico al posto del naso e la bocca al posto dei genitali, il tutto protetto da morbide curve di biondi capelli. Magritte, trasforma/deforma il viso di una donna in oggetto del desiderio, un viso/corpo privo della sua individualità, delle sue espressioni e dei suoi sentimenti. Un volto trasfigurato da usare per il piacere. Questo quadro, che forse può indignare, colpisce, in quanto contiene una disarmante e attuale verità: raffigura alla perfezione la violenza che lo sguardo di un uomo commette quotidianamente al corpo di una donna. Il volto femminile è trasformato in puro oggetto di desiderio, in un corpo usa e getta.  Parquet dice infatti che Magritte distrugge l’evidenza delle evidenze, quelle del volto, con un’evidenza ancora più evidente, quell’immagine shock e il pensiero che vi è sotteso, la visione speculativa e la vista della vista sono le componenti chiave dell’opera magrittiana.” Dallo spazio colorato del pittore si arriva allo spazio bianco del poeta famoso, che attiva la fantasia per spiegare l’assenza della donna amata. Per lui, l’amore che si dà e l’amore che si nega sono motivo di delusione, analogamente dolente e fertile: “Oggi che t’aspettavo/non sei venuta./ E la tua assenza so quel che mi dice/ e la tua assenza che tumultuava/ nel vuoto che hai lasciato/ come una stella./ Cardarelli, 1936, p.76, concluderà: “Amore, amore, come sempre/ vorrei coprirti di fiori e d’insulti./” Il nuovo poeta però è sempre più in crisi.  Il linguaggio è cambiato. L’amore che teneva per mano i due amanti tra la Gioia e il Dolore nei versi di Cardarelli, ha nuove espressioni. Oggi, l’amore che si nega è più di quello che si dà e la privazione crea aforismi decisi, concisi: “Non te la darei neanche se ce l’avessi doppia.”, si legge su Twitter. Così, il poeta, assiste al lento abdicare delle parole ufficiali. Insegue nuovi sensi e nuove strutture. Sperimenta nuovi linguaggi, cancella ogni canone oltrepassando/bypassando la siepe. Cerca di creare una formula nuova, meno estesa, più attuale. Scarta i metri, dimentica le rime, litiga con le parole abusate, e mentre le riafferma, le esclude: il tempo, no. Il barlume della notte, no. Le stelle, no. La rugiada, no. Il cuore, no. L'amore, no. I segreti, no. La canicola, “no e poi no”. Rimpianti, ricordi, senso di colpa, l'universo, il sole, il fango, l’oblio, il dolore, lacrime antiche, anima che brama prepotente, labbra di fuoco, labbra scarlatte, sorriso di miele: a meno che non si abbia a disposizione una compressa di Plasil contro la nausea, no. Ma il futuro delle nuove parole è poi così poetico? Nei messaggi privati si leggono nuovi gerghi: “Amore, hai un tag!” “Dammi la password che entro.” “Ti avevo detto di fare il login!”  “Hai pensato all’Hashtag: #ottimo#vinoveritas#casamia.”  “Hai messo il gatto su Instagram?” “Hai visto la Pic of the week!?” TesoroRetweet o Re-tweet: MT “modified tweet”e HT “heard through”.” “Caro, hai un DM.” “Se mi Following.” “Ti Followers.”  Tra la scrittura, la pittura e la poesia, oggi, 8 Marzo 2015, ricordiamo i 124 femminicidi nel 2012, i 177 nel 2013 e una vittima ogni tre giorni negli ultimi dati statistici. L’orrendo fenomeno non si placa. Tra donna e donna. Tra amore e paura. Tra nonne, madri e figlie. Tra mito e necessità: dalle mani di un uomo alle mani di una donna, il fiore dell’8 Marzo resta la mimosa che nel 1908 cresceva nei pressi della fabbrica bruciata, quando 129 operaie di un’industria di New York morirono in un incendio, mentre protestavano per le condizioni di lavoro indegne a cui erano costrette.

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