domenica 11 settembre 2016

Intervista di Carina Spurio ad Enzo Delle Monache ed al suo "Quando un fiume muore".  Artemia Edizioni, 2013.



"Quando un fiume muore, diventa mare”. Lo afferma il protagonista alla fine del romanzo. La frase diventa il titolo del libro e quindi, l’inizio. Di sicuro è un bel gioco di parole ed immagini inserite tra la morte e la vita. Non è raro imbattersi nei romanzi d’esordio, in cui intime memorie possono contenere il rischio dell’ovvio. Non cadere in questa trappola non è semplice ma questa storia nella sua consuetudine scampa al pericolo, perché la scrittura è davvero semplice e regala al lettore immagini che restano. Vi presento un romanzo raccolto e silenzioso, sospeso tra la nostalgia e la radice profonda che affonda nei secoli di storia dei nostri antenati, di bisnonni e di avi, di cui apparentemente sembra persa la memoria. Avete mai provato ad ascoltare il suono struggente della nostalgia? Avete mai percepito il profumo dei ricordi? Del fuoco acceso, della legna che arde oppure, dell’aroma pungente dell’erba appena tagliata? Avete mai sentito il sapore del ritorno? Del ritorno di un prigioniero di guerra? Un sapore che sa di radici amare, ma nel romanzo diventa il simbolo della ricostruzione, della ricomposizione. Dentro il viaggio di parole a cui ci invita Enzo delle Monache attraverso il suo libro dal titolo “Quando un fiume muore”, Artemia Edizioni, 2013, scorre un paesaggio di un tempo lontano, dimenticato. Di un tempo difficile, di lavandini intonacati a calce, di pentole e mestoli di rame, di materassi imbottiti dalle sfoglie delle spighe del granoturco, di case coloniche, del carbone che permetteva di guadagnare pochi soldi necessari ad acquistare il petrolio, di “fascine” e di “ceppe” e di donne laboriose pronte ad eseguire perverse consuetudini, dotate di forza e resistenza inesauribili. In questo viaggio di ricordi, tra le immagini che scorrono veloci, il passato diventa memoria tra i periodi ordinati, precisi come metriche antiche in cui ogni atto viene descritto in con stile limpido e pulito, ma, tra le fatiche e le speranze dei protagonisti è in agguato la guerra. Il libro di Enzo Delle Monache rapisce, allontana gli occhi dal paesaggio urbano, sposta il naso dall'odore nauseante dei gas di scarico, libera l’orecchio dal chiasso di fondo e rende inquietante perfino il silenzio. Il romanzo resta tra le mani fino alla fine, mentre dentro un altro tempo dorme la nostalgia di un ricordo intriso di profumi e di odori. E’ un bel viaggio, è una storia nelle storia, è il ritorno di Gino il 25 ottobre del 1945. Gino che ha raccontato le sue storie […] “dieci, cento, mille volte, nelle fredde serate invernali vicino al caminetto scoppiettante, oppure in estate lungo i lenti pomeriggi di Agosto, all'ombra di un ulivo secolare […].
Buona Lettura!


C.S.: In che modo la scrittura entra nella sua vita?
E.D.M.: E’ entrata per caso, avevo in mente tante scene, tante emozioni, tanti racconti. Il timore di perderli nel buio dell’oblio mi ha spinto a trascrivere quello che avevo in testa. Ed è stato così che le parole sono uscite come una cascata irrefrenabile dalle mie dita. Scrivevo senza riuscire a smettere, le idee, le frasi, le situazioni nascevano e le mie dita le rincorrevano cercando di trasferirle sulla tastiera. È stato così che quello che avevo in testa e nel cuore è finito in un libro.


C.S.: Quando ha iniziato a scrivere immaginava che il suo libro sarebbe stato pubblicato?
E.D.M.: Assolutamente no! La prima idea era quello di trascrivere i racconti, le idee, le suggestioni. Poi ho dato una forma alle varie parti e il romanzo ha preso forma. Ma ancora non immaginavo minimamente di trasformarlo in un prodotto editoriale. Le prime cento copie furono infatti stampate in privato e donate ad altrettanti amici. Erano copie numerate con dediche personalizzate. Ero convinto che quello era già molto di più di quanto volessi inizialmente.


C.S.: Da dove nasce la scelta del titolo?
E.D.M.: Il titolo è nato alla fine del libro, con l’ultima frase del libro stesso. Il titolo è rimasto in sospeso fino alla fine. “Quando un fiume muore, diventa mare” è la frase con cui il protagonista conclude il libro mentre il suo sguardo si perde nell'immensità dell’orizzonte azzurro. Il fiume come metafora della vita di un uomo! Il fiume che lungo il suo cammino incontra fasi di stagnazione, poi le cascate, poi le rapide per poi sparire all'improvviso in un tunnel buio sotterraneo, e poi riemergere alla luce ... fino alla sua fine! Fino a quando diventa Mare. Il fiume diventa mare, ma non sparisce, diventa qualcosa di più grande del fiume stesso.


C.S.: Ci può illustrare la copertina del suo libro?
E.D.M.: ”Bestie da Soma” di Teofilo Patini, un dipinto meraviglioso. Magico per la sua forza espressiva e per la valenza evocativa. Le donne che trasportano legna lungo una brulla salita di montagna. Una donna in evidente stato di gravidanza che si riposa a fianco al suo fascio di legna. Gli uomini del mio romanzo sono come queste donne, sono “bestie da soma”, consumano la loro esistenza all’interno di limiti spazio temporali senza futuro o ambizioni. Uomini che consumano la loro esistenza giorno per giorno, senza potersi concedere il lusso di sperare qualcosa di meglio per se o per i propri figli.


C.S.: Quanto tempo ha dedicato alla realizzazione di questo testo?
E.D.M.: Il libro è stato scritto in 15 giorni ed è praticamente uguale a come è stato scritto. Vi sono state apportate solo pochissime correzioni grammaticali o sintattiche, ma il testo è stato pubblicato così come è uscito la prima volta dalle mie dita.


C.S.: Qual è la parte del romanzo alla quale si sente più legato?
E.D.M.: Il matrimonio di Maria: la docilità, la serenità e la rassegnazione con cui questa donna, poco più che bambina, si proietta nella sua nuova dimensione pronta ad affrontarne tutte le conseguenze, mi ha commosso fin dal primo momento. Ricordo di aver avuto problemi a scrivere perché le lacrime mi appannavano la vista. Maria è la vera protagonista del mio romanzo, di lei si parla poco, ma è lei e sono le donne le vere protagoniste silenziose delle storie che racconto.


C.S.: Peppe e Assunta, Gino e Maria, i suoi protagonisti accompagnano il lettore alla riscoperta di sentimenti semplici, ma è l’intero romanzo che permette al passato di farsi memoria. Ha mai pensato che il suo libro possa diventare una testimonianza per le nuove generazioni?
E.D.M.: Si, l’ho pensato e lo spero! Il libro nasce dalla mia passione per l’ascolto e per la passione di qualche “vecchio” per il racconto. Loro raccontavano e io ascoltavo. Sempre le stesse storie, sempre le stesse parole … e io ne volevo sempre di più, e io che da ragazzo chiedevo sempre gli stessi racconti. Un po’ la stessa cosa che accade oggi, forse, quando i miei figli guardano mille volte lo stesso cartone o lo stesso film. Mi piacerebbe che questo testo fosse letto nelle scuole, come già è accaduto in una classe 2° delle Medie superiori di Larino (CB). La memoria con la valenza del “Testimone” della staffetta: se un atleta non prende il testimone di chi ha già fatto un giro, rende inutile il giro fatto e vano quello che si accinge a percorrere. Affrontare la propria vita senza sapere da dove veniamo, rende inutile tutti i sacrifici fatti dai nostri avi e forse toglie parte del vero significato alla parte nostra di cammino.



C.S.: Lo sfondo del suo romanzo si staglia dentro la prima metà del ‘900 e colora fotogrammi di vita contadina. Le immagini sono nitide, mentre i personaggi sono realisticamente intenti a vivere la vita non priva di tragedie e dolori, compresa la guerra. I nostri nonni, ci ritenevano fortunati, secondo loro la nostra generazione non avrebbe mai fatto la guerra. Per loro eravamo i figli del progresso. Invece qualcosa non ha funzionato e stiamo vivendo anche noi la paura della guerra.

 E.D.M.: Si, la stiamo vivendo, ma ne siamo assuefatti. La finzione televisiva ci ha anestetizzati, ci ha resi insensibili alla realtà! Oggi tutti pensano di aver paura, ma la verità è che siamo bravi a far finta. Oggi tutto è finzione e non ci rendiamo conto veramente di cosa significa vedere alla tv un bambino morto sopra una bomba antiuomo, perché cambiamo canale e ci concentriamo sulla campagna acquisti di questa o quella squadra di calcio. La tragedia è solo finta. Si ha paura come se si recitasse una parte. La guerra quella vera è quella che si vive sulla propria pelle, quella che distrugge le case, che uccide i figli, che annulla esistenze. Purtroppo solo quella è la guerra, il resto è finzione cinematografica.


C.S.: Quali autori l’hanno ispirata?
E.D.M.: Non so rispondere a questa domanda. Io credo che tutto quello che ho letto, tutti i libri, tutti i fumetti, tutti i film che ho visto, tutti i cartoni animati, tutte le canzoni che ho imparato a memoria … tutto quello che ho vissuto e amato, hanno poi ispirato la mia scritture, il mio modo di raccontare la scelta delle parole e dei tempi narrativi.


C.S.: Quale libro sta leggendo attualmente?
E.D.M.: Attualmente sono impegnato nella lettura della nutrita serie di “Gialli” del prof. Elso Simone Serpentini. Li voglio leggere tutti. Sono più di trenta, ma dopo aver letto il primo è impossibile non voler leggere anche tutti gli altri. Il prof. Serpentini trae ispirazione dai casi giudiziari teramani nei cento anni che vanno dal 1861 al 1961. Le storie sono affascinanti non tanto per gli eventi in quanto tali, ma quanto per la realtà sociale e storica in cui sono calati. È magico ritrovarsi nella Teramo di inizio secolo seguendo le vicende di un assassino o di una vittima. Ma sul comodino ho tanti libri che aspettano pazienti e silenziosi di avvolgermi nelle loro trame.


C.S.: Qual è il posto in cui ama tornare?
E.D.M.: Io ho un rapporto strano con il tempo: io amo la mia vita e amo tutto quello che ho vissuto. Tornare nei luoghi dove sono stato è sempre una forte emozione, ma l’essere diventato grande aumenta la paura della morte  trasformando il ricordo romantico in ansia malinconica. Torno nei posti dove sono stato, ma l’ansia soverchia la nostalgia.


C.S.: Qual è il suo rapporto con la fede?
E.D.M.: Io e la fede abbiamo un ottimo rapporto. Camminiamo insieme da oltre 40 anni, si può dire che ci rispettiamo ma non abbiamo ancora deciso di fonderci l’uno nell’altro. Io sono troppo razionale per dare senso ad una parola che non ammette l’analisi critica. Purtroppo per me è ancora molto più importante “capire” che “credere”. Non concepisco la possibilità di credere in qualcosa che non posso capire. Il bisogno di sentirmi parte di qualcosa più grande di me, invece, è un altro discorso.


C.S.: Il coraggio e la paura, cosa sono per lei?
E.D.M.: Compagne imprescindibili di ogni passo. Non ho mai fatto niente senza aver dentro di me una terribile paura di sbagliare. Per mia fortuna però, la paura non mi blocca, non mi immobilizza, la paura aumenta la produzione di adrenalina e acuisce i miei istinti. Io amo aver paura, perché sento che tutto in me si accende e aumenta la mia capacità di produrre dubbi e quindi senso critico. Il Coraggio poi … è quello che mi permette di chiudere con la fase di studio e passare a quella operativa, qualsiasi sia l’avventura nella quale mi sto per buttare.


C.S.: Un ricordo ricorrente …
E.D.M.: Non è facile rispondere a questa domanda perché io ricordo tante cose. Io vivo di ricordi. I ricordi, il mio passato permea ogni istante del mio presente. Citarne uno farebbe torto a qualche altro ricordo.


C.S.: Di recente ha pubblicato un nuovo libro dal titolo “La pesantezza del vuoto.” sempre con le Edizioni Artemia. C’è un nuovo progetto letterario nel suo futuro immediato?
E.D.M.: Si, sto scrivendo un nuovo romanzo. Ho praticamente iniziato subito dopo la pubblicazione de “la pesantezza del vuoto”. Sarà stata l’onda emotiva, o la carica adrenalinica scaturita dalle presentazioni del romanzo, ma un pensiero che avevo in testa da tempo ha preso forma, e senza che me ne rendessi conto, i personaggi hanno preso forza e struttura tanto che iniziare a scrivere è diventato una necessità.


C.S.: L’Abruzzo, cosa rappresenta per lei?

E.D.M.: L’Abruzzo è la mia casa, io sono Abruzzese fin dentro il mio intimo. Ne ho respirato l’aria, ne ho bevuto l’acqua, ne ho guardato il mare, ne ho mangiato i frutti, ne ho amato il popolo. Io ho girato tanto, ho visto tante Regioni del mondo, ho mangiato tante pietanze ed amato tanti vini. Poi però torno a casa e sento che io sono questa Regione, io potrei pure trasferirmi per sempre in un Paese straniero ma resterei per sempre un abruzzese puro e tenace.