sabato 27 giugno 2009

Comunicando...

Ominidi
di Carina Spurio
C’era una volta un nostro antico progenitore che emetteva suoni non articolati e attraverso i movimenti del corpo rappresentava situazioni e stati d’animo da interpretare. I primi Ominidi, (dai quali proveniamo), non erano in grado di parlare. La composizione dei loro teschi, studiata successivamente, ha evidenziato una posizione della laringe che impediva l’articolazione dei suoni usati normalmente per parlare. Il codice di comunicazione primitivo era fatto di gesti improvvisati, per dare l’idea di ciò che non si riusciva a tradurre in suono. Si arrivò alle prime forme di linguaggio parlato 40.000 anni fa con l’ Homo Sapiens; “egli ha la fronte non sfuggente, i denti di dimensioni ridotte e il mento osseo. Costruisce strumenti complessi; le sue tecniche di caccia non sono rudimentali; seppellisce i morti. La sua vita materiale ma anche quella spirituale è molto sviluppata. Vive in clan. La raccolta, la caccia e la pesca costituiscono i suoi mezzi di sussistenza ed ha inventato sofisticati metodi per procacciarsi il cibo e per conservarlo; possiede diverse tecniche di costruzione, si veste con pelli e si orna con gioielli di ambra e conchiglie.” Con l’ Homo sapiens assume maggiore peso l'evoluzione culturale: si perfezionano nuove tecniche di caccia e guerra, compaiono manifestazioni grafiche (pitture e graffiti ritrovati nelle grotte che servivano da abitazione) oggetti scolpiti con valore magico – rituale e il geroglifico, nel quale è contenuto un grande potere perché il simbolo resta impresso nel tempo, anzi, al di là del tempo. Nella storia della comunicazione hanno lasciato una traccia quei nostri lontani antenati che hanno iniziato ad avvertire l’esigenza di lasciare una testimonianza che andasse oltre il tempo e di fatti per loro importanti (battute di caccia e combattimenti). La caccia riuniva, teneva vivi i rapporti di parentela e di amicizia. Le raffigurazioni di scene con figure umane e le battute di caccia che vedevano protagonisti gli animali realizzati in graffiti, sembrano essere i primi prodotti artistici dell’umanità. Il tentativo rudimentale segna l’inizio dell’Arte che racconta un linguaggio con le immagini, le quali, oltre ad avere caratteristiche di durata nel tempo, trasmettono il proprio messaggio senza l’esigenza di essere presenti come invece accade con la comunicazione verbale.
Un graffito della lontana Preistoria è un messaggio semplice dal quale ricavare informazioni, segnala la prima forma di scrittura “ideografica” nella quale, il segno, aveva un preciso significato ( i geroglifici egiziani) malgrado le altre forme di comunicazione non verbale; i grandi tamburi di legno (tam-tam), utilizzati per tradizione da molti popoli africani e asiatici e i segnali di fumo degli Indiani d’America.
Il succedersi delle generazioni e i contatti tra i diversi gruppi, anche in seguito agli spostamenti delle tribù, contribuirono ad evolvere la comunicazione verbale. Fu proprio la parola ad esprimere i sentimenti, le idee e a far comprendere agli uomini che poteva essere possibile lasciare una testimonianza dei propri stati d’animo attraverso la scrittura e il suo potere evocativo (permette, in chi legge, di usare l’immaginazione).
Dopo la scrittura un passo avanti lo ha compiuto la stampa. E’ grazie alla stampa che un testo scritto può essere diffuso e conservarsi nel tempo. Nel XV secolo, Gutemberg, usò la stampa a caratteri mobili che aveva un particolarità; ottenere un maggior numero di copie in breve tempo rispetto ai manoscritti del Medioevo splendidamente illustrati, veri capolavori artistici. A partire dal XIX secolo, nuove forme di comunicazione cambiarono la storia della comunicazione. Il primo mezzo che consentì di trasmettere i messaggi a distanza sfruttando l’elettricità fu il telegrafo (verso i primi dell’800) e verso la fine del secolo arrivò un’invenzione ancora più rivoluzionaria “il telegrafo senza fili”( la radio). Dai messaggi in codice si passò a quelli dei suoni e quindi alla trasmissione della voce umana. Contemporaneamente alla radio, nasceva “il Radiocorriere”, il primo giornale dei programmi radio. Spesso siamo soliti affermare che la nostra è la civiltà dell’immagine, senza magari fermarci prima a riflettere. Siamo praticamente bombardati dalle immagini, tendiamo a perdere di vista che l’immagine si imprime nella nostra mente più della parola.Non lo sapevano nemmeno i fratelli Lumière che nel 1895, al Grand Cafè di Parigi, proiettarono, non senza perplessità, il primo vero e proprio film della storia. L’era della televisione era appena cominciata e negli anni successivi si impose come principale mezzo di comunicazione e intrattenimento. Con Georges Méliès (1861-1938) nacque lo spettacolo cinematografico. Méliès, dopo essersi costruito con le proprie mani una macchina da ripresa, fondò una casa cinematografica; la Star Film, il suo motto: “Il mondo a portata di mano”! Diede sfogo alla sua creatività ricostruendo gli avvenimenti in un capannone allestito per le riprese dando vita alle fiabe di Cappuccetto Rosso e Cenerentola, a racconti di terrore, fino a rappresentazione di fantascienza con “Il viaggio della Luna” (1902) ispirato al romanzo di Jules Verne “Dalla terra alla Luna”. Nel 1986, incaricato dai fratelli Lumière, Fèlix Mesguich, si imbarcò per gli Stati Uniti; quest’ultimo, non avrebbe mai immaginato il grande successo che il cinema avrebbe riscosso in quel paese. Intanto alcune società americane fiutarono l’affare e in poco tempo, sul mercato, furono lanciati nuovissimi apparecchi per le riprese cinematografiche. Nacquero i “Nickelodeon”, sale cinematografiche il cui ingresso costava un nickel. Il cinema richiamò l’attenzione di grandi personaggi i cui nomi divennero celebri in tutto il mondo (Zukor, W.Fox, S.Goldwyn, I Warner). Furono questi i fondatori delle grandi case di produzione alcune delle quali attive ancora oggi. Zukor, ungherese, aveva fatto il pugile, il tappezziere e il pellicciaio prima di fondare una propria casa cinematografica la Famous Players che pochi anni dopo sarebbe diventata la “Paramount”. Fox, nel 1925 fondò la 20th Century Fox e S. Goldwyn, nel 1917 fondò la Picture Corporation che diventerà “Metro - Goldwyn – Mayer”. Da una troupe inviata per caso dal produttore Selig in California per girare alcuni esterni di un fim, fu scoperta Hollywood. Il regista e gli operatori si fermarono in un piccolo villaggio vicino a Los Angeles, nessuno di loro, avrebbe mai immaginato che quel “bosco di agrifoglio” (traduzione italiana di Hollywood) sarebbe diventato il fulcro più importante del cinema mondiale.Il successo del Cinema fu travolgente tanto negli Stati Uniti quanto in Francia, tra il 1895 e il 1900, furono depositati da americani e francesi oltre 200 brevetti di apparecchi. Nel 1909, il Congresso Internazionale dei produttori e dei Distributori, adottò l’uso della pellicola da 35 mm (brevettata da Edison). L’anno 1929 vide nascere il premio Oscar, la celebre statuetta dorata che da quell’anno viene attribuita ai migliori rappresentanti del cinema.Furono molti i registi che si susseguirono dietro la macchina da presa nel corso degli anni a venire,: Elia Kazan, Akira Kurosawa, Orson Welles, Ingmar Bergman, Federico Fellini (per citarne alcuni).Alcuni di loro si specializzarono in determinati generi, tanto che il pubblico si abituò a identificare il genere di film dal nome del regista e da quello degli interpreti. Un po’ come accade oggi, quando alle soglie del terzo millennio, grazie all’uso di effetti speciali o particolari inquadrature, siamo capaci di riconoscere il ritmo serrato delle immagini forti di Ridley Scott, autore di celebri film, o Steven Spilberg attraverso le scene assolutamente fantastiche e irreali. Il cinema, di recente, si libera della commedia all’italiana e degli Eroi invincibili e presenta riprese in chiave fantascientifica atmosfere da film dell’orrore, accanto ad un sempre maggiore sviluppo dell’intelligenza artificiale e di macchine che sfuggono al controllo umano o in alcuni casi si sostituiscono ed esso.Registrata in formato digitale la realtà filmata e si libera del legame con il cinema tradizionale. Il computer non distingue tra immagini ottenute fotograficamente e quelle create da un programma di disegno o di animazione in 3D; per un computer le immagini sono tutte uguali, perché sono costruite con lo stesso materiale :il pixel. I Pixel si prestano ad essere facilmente alterati, sostituiti e scambiati. In questo modo la ripresa diretta viene degradata al livello di una qualsiasi soluzione grafica, identica alle altre immagini create manualmente. Il cinema oggi ha ottenuto la plasticità che fino a poco tempo fa era solo della pittura e dell’animazione. I registi digitali lavorano con una "realtà elastica". Si ricordi la sequenza d’apertura di Forest Gump (Robert Zemeckis, Paramount Pictures, 1994, effetti speciali della Industrial Light and Magic) insegue il lungo volo di una piuma.La vera piuma, filmata in varie posizioni su uno sfondo blu è stata animata e sovrapposta su una sequenza paesaggistica. Sembra che qualcosa di impossibile ad un tratto trovi vita grazie ad effetti speciali e le immagini non sono più una dozzina, come accadeva nel diciannovesimo secolo ma infiniti fotogrammi, e sembra altrettanto impossibile che le mani, dagli Ominidi all'Uomo, si sono adeguate gradualmente a diverse e insospettabili attività rispetto a quelle originarie.

http://www.teramani.net/public/post/comunicando-168.asp#more

domenica 14 giugno 2009

Il Calabrone

Nuovo interessante numero del “Calabrone”

È uscito, in tempo per essere consegnato agli alunni prima della chiusura delle scuole, il terzo dell’anno scolastico 2008/2009 del “Calabrone”, il giornalino scolastico dell’Istituto Tecnico Industriale “Enrico Mattei” di Isernia, che si è fatto notare anche al di fuori dell’Istituto per la bella impostazione grafica e soprattutto per i contenuti di notevole interesse. Non è un caso che sia stato premiato per il secondo ano consecutivo nel concorso “Fare il giornale nelle scuole” indetto dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti e dal Comune di Benevento.
In questo nuovo numero, 32 pagine, molti interessanti articoli. Citiamo qualche titolo: “L’Università: scelta di vita”, “Che cos’è un terremoto”, “La Protezione Civile”, “Tesla, il Genio che inventò il XX secolo”, “Cassino accoglie il 76° Congresso di Esperanto”, “Facebook, un social network per mille nuove riflessioni”, “Energie rinnovabili”. E poi vecchie e nuove rubriche, come “Notate le note”, “Proverbi aggiornati”, ecc.
Chi volesse avere copia del nuovo numero del “Calabrone” può chiederla a scuola. Per ricevere copia in formato pdf: edizionieva@libero.it.

Qui di seguito, riportiamo, dal “Calabrone” un’intervista di Nadia Turriziani allo scrittore Amerigo Iannacone e la rubrica “Notate le note”.


Intervista ad Amerigo Iannacone
«Scrivere è creare dal nulla»

D.: Per lei cosa significa scrivere?
R.: Potrei tentare una definizione del tipo: scrivere è realizzarsi. Ma in realtà normalmente non ci si chiede perché si scrive. Io scrivevo le mie prime poesie già quando frequentavo la scuola elementare né allora pensavo, ovviamente, che avrei pubblicato. Era, ed è, in qualche modo un’esigenza. Potrei anche dire che scrivere è creare dal nulla, cosí come ci dice l’etimologia della parola poesia, che deriva appunto da un verbo greco che significa “creare”.
D.: Quali sono i suoi libri del cuore?
R.: Ne sono molti. Uno – può sembrare banale – è la raccolta dei Canti di Leopardi. Poi metterei i Racconti di Edgar Alla Poe, Delitto e castigo di Dostoevski e molti altri classici dell’Ottocento, soprattutto i russi e i francesi. Piú vicini a noi, molti dei poeti del Novecento: in particolare Sinisgalli, Cardarelli e Quasimodo. Tra i romanzi Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e Il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati.
D.: Il libro piú bello che ha letto negli ultimi tre anni?
R.: Dovrei ripercorre un po’ le letture che ho fatto e mi è difficile ricordarle e ancor piú fare una graduatoria. Mi viene in mente un libro che mi ha colpito molto: Quattro mele annurche, un romanzo breve di Maria Rosaria Valentini, giovane scrittrice e poetessa originaria di San Biagio Saracinisco e residente in Svizzera. È un nome già abbastanza noto, ma credo che si sentirà molto in futuro negli ambienti letterari.
Tra il libri di poesia un bel libro che ho letto di recente è L’orto del poeta ciociaro Gerardo Vacana.
D.: Qual è il rapporto con la sua regione e con la sua terra?
R.: Credo che ognuno di noi paghi lo scotto, nel bene e nel male, alla propria terra. Ed è inevitabile che per uno come me, che mi sono allontanato piuttosto raramente dalla mia regione, si finisca per instaurare con essa un rapporto di amore-odio. Odio per le cose che vanno male e si vorrebbero cambiare, ma si è impotenti a farlo. L’amore non si spiega perché. Ma forse ci si affeziona alle cose che ogni giorno si vedono, le montagne, le strade, le case, gli alberi, e forse anche certe fisionomie finiscono per radicarsi nella nostra memoria.
D.: Il suo rapporto con la città?
R.: Se intende la città in cui abito, devo dire che in realtà il posto è un piccolo paese e il rapporto è lo stesso che ho con la mia minuscola regione: dovrei dire le stesse cose che ho detto per la mia terra.
Se intende invece parlare della città in generale, devo dire che non mi dispiace frequentare di tanto in tanto la città per tutto quello che può offrire, e non solo come servizi e come commercio, ma anche per la vita culturale e per gli incontri proficui che si possono fare.
Ma non credo mi piacerebbe vivere stabilmente in una grande città: troppo dispersiva, troppo confusa, troppo distratta, troppo anonima.
D.: Come è arrivato alla pubblicazione del suo lavoro?
R.: Ci sarebbe da fare un discorso molto lungo sull’editoria e sulle scelte editoriali degli editori grandi o medio-grandi, che puntano esclusivamente alla prospettive di vendita e non alla qualità.
Ma io, come Lei credo sappia, gestisco una piccola casa editrice e i libri li pubblico da me.
D’altra parte per pubblicare il mio primo libro, una raccolta di poesie intitolata Pensieri della sera, uscita nel 1980, ho semplicemente preso un manoscritto e l’ho portato in tipografia.
D.: Ha frequentato corsi di scrittura creativa?
R.: No, non li ho frequentati, ma insieme a qualche collega, in un paio di occasioni abbiamo tenuto un corso con gli alunni e i risultati sono stati incoraggianti. Alcuni ragazzi hanno cominciato a scrivere in quell’occasione e poi hanno continuato. Di un seminario fatto a Caiazzo, in provincia di Caserta, è stato pubblicato un interessante volume, La scrittura creativa, con gli interventi nostri e con gli elaborati degli studenti.
D.: Ritiene siano utili?
R.: Premetto che se non c’è il talento innato, non c’è corso di scrittura che tenga. Tuttavia direi che i corsi possono essere senz’altro utili, perché hanno una funzione maieutica. Possono cioè aiutare a prendere coscienza delle proprie capacità.
D.: Quale ritiene sia l’aspetto piú complesso della scrittura narrativa?
R.: Non parlerei di aspetti complessi, piuttosto della ricerca delle idee e della loro realizzazione in una scrittura che risulti stilisticamente accattivante.
D.: Come scrive: a penna o al computer? Di giorno o di notte? Segue “riti” particolari?
R.: Del computer, volenti o nolenti, non si può fare a meno. Quando sono a casa, scrivo – già da alcuni anni – direttamente al computer, perché è comodo: si può cancellare, riscrivere, riprendere, ecc., e poi si ha già il testo pronto per la tipografia, per il giornale o per inviarlo per posta elettronica. Comunque non disdegno la penna, soprattutto quando sono fuori casa, in viaggio o altrove. Ho sempre con me piú di una penna e spesso mi ritrovo le tasche piene di biglietti con appunti.
Niente riti, ma in genere di notte lavoro meglio, perché non ci sono distrazioni: non c’è il telefono che suona, non c’è chi bussa alla porta, non c’è la tentazione di interrompere per uscire o dedicarsi ad altro.
D.: Come è nata l’idea di scrivere il suo ultimo libro?
R.: Il mio ultimo libro, Il Paese a rovescio e altre fiabe, è nato come un divertissement, o meglio, come dei divertissement, visto che i testi sono stati scritti nel corso di diversi anni e solo ora raccolti in volume. È stato comunque preso sul serio e apprezzato dai critici, non solo, o non tanto, per la vena umoristica, ma anche per l’ironia, per la garbata satira e per un intento didascalico che si può spesso trovare fra le righe e che non appesantisce. Forse non è bello che parli io in questi termini del mio libro, ma in realtà sto riportando il senso di alcuni interventi di critici e di lettori.
D.: Preferisce cimentarsi col racconto o nelle poesie?
R.: “Preferire” forse non è il verbo giusto. Dipende dai momenti. Diciamo che alterno. Comunque la scrittura poetica, indipendentemente dal valore che la mia poesia può avere, mi gratifica di piú. Dopo avere scritto una poesia mi sento come appagato e sereno. Devo dire però che una mia lettrice ebbe a dire una volta che i miei racconti sono come delle “poesie espanse” (si riferiva al mio libro Microracconti del 1991), cosa che mi fece piacere, e che mi fece pensare. E in realtà non c’è una cesura netta tra i racconti e le poesie, come invece ci potrebbe essere tra una poesia e un articolo di cronaca (perché io ho fatto anche il cronista).
D.: Ci dà una definizione dell’uno e dell’altro?
R.: Questo è davvero difficile. Se prova a leggere la definizione della parola “poesia” in dieci diversi vocabolari, troverà dieci definizioni diverse, a volte tra loro contraddittorie, e si accorgerà che nessuna la soddisferà. Vogliamo provare a dire quello che la poesia non è? Non è un passatempo della domenica, non è un gioco solipsistico, non è uno svago fine a sé stesso, non è un hobby. La poesia è nella natura stessa del poeta. E c’è poesia quando il lettore, leggendo un testo, vi trova un po’ di sé.
Il racconto è una narrazione che abbia un contenuto valido e che sia stilisticamente piacevole.
D.: Come ha scelto il titolo del suo libro piú recente?
R.: È il titolo di una fiaba poi esteso a tutto il libro. Ma il titolo è Il Paese a rovescio, perché nei racconti c’è spesso un rovesciamento della realtà o comunque della visione della realtà, quasi sempre sul filo dell’ironia e anche dell’autoironia.
D.: Ha altri progetti in cantiere?
R.: Sí, ci sono parecchie cose in cantiere, anche se purtroppo, nella frenetica vita che viviamo e che quotidianamente ci costringe a fare cose di cui faremmo volentieri a meno (la coda all’ufficio postale, la seduta dal dentista, le incombenze familiari...) e ci costringe ad essere in posti dove eviteremmo di andare, non sempre si riesce a trovare il tempo e la serenità per dedicarsi alla scrittura.
Tra i lavori che ho avviati, una rassegna dei poeti della mia provincia, un dizionario dei personaggi illustri di Venafro di tutti i tempi, un’antologia della poesia esperanto con traduzione italiana. Cosa che attualmente non c’è: chi non conosce la lingua non ha modo di avvicinarsi alla la produzione poetica in esperanto che pure è rilevante. Ed ho anche diverse altre cose avviate o in programma, che conto di realizzare se avrò vita e forza.

Nadia Turriziani